“Portare la Fiamma Olimpica è stato per me un momento dal valore immenso – ha raccontato Ahmed - l’ho fatto per onorare mio fratello gemello, Mohammad, che ho visto morire davanti ai miei occhi. Insieme condividevamo gli stessi sogni nello sport. La guerra, che ha cambiato per sempre la mia vita e reciso la sua, non ha spento la mia forza. E tenere la fiamma tra le mani ha trasformato il dolore in speranza. Per me questa fiamma è simbolo di vita, coraggio e rinascita: la promessa di continuare il sogno che io e mio fratello condividevamo fin da bambini, con la stessa luce nel cuore”.
A spingere la carrozzina di Ahmed, mentre portava la Fiaccola Olimpica tra l’entusiasmo della gente, c’era il nostro collega Ghaleb Taha, che lavora all’Ospedale Bambino Gesù, dove ha conosciuto e stretto amicizia con il ragazzo palestinese, il quale, come tanti altri minori vittime della guerra, è stato curato dall’Ospedale del Papa. La vicenda di Ahmed, accolto in Italia con la mamma, il fratello Qusay e la sorella Alaa, colpisce e fa riflettere sulla crudele assurdità della guerra in Terra Santa, ma anche sulla possibilità di mantenere viva la speranza - come una torcia accesa che passa di mano in mano nella notte - curando le vittime, prendendosi cura di loro.
Ahmad e Mohammad erano due ragazzi famosi nel quartiere di Beit Lahia a Gaza: due promesse dello sport che con le loro esibizioni divertivano e affascinavano adulti e bambini, come si vede in tanti video che sono pubblicati sui social di Al Ghalban. Dopo il 7 ottobre tutto è cambiato e con la guerra la famiglia è dovuta sfollare otto volte in cerca di salvezza. Sul nostro sito troverete tutta la storia di Ahmad raccontata da lui, vi invitiamo a leggerla. Ma ad emozionarsi e ad emozionarci è stato anche Ahmad Ali Taha, coordinatore delle case famiglia per minori del Protettorato San Giuseppe di Roma: anche Ahmad, come suo fratello Ghaleb, è diventato cittadino italiano da alcuni anni, dopo essere arrivato come rifugiato in Italia insieme a tutta la famiglia: “È stato un grande onore portare la Fiamma Olimpica – racconta Ahmad Taha- questa fiamma viene portata da atleti, personaggi famosi, attori, cantanti… e poi c’eravamo anche noi, come veri ambasciatori dei valori olimpici. Ognuno con la sua storia, ognuno a rappresentare qualcosa di importante. Una catena di passione e di speranza in un mondo migliore. Sentire l’energia della gente, i sorrisi e l’emozione lungo il percorso è stato qualcosa di indescrivibile. Grazie di cuore a coloro che ci hanno fatto vivere questo momento indimenticabile".
AHMED ABDULLAH AL GHALBAN RACCONTA LA SUA STORIA:
Sono un ragazzo palestinese di 17 anni, che sognava una professione da ginnasta professionista e oggi, a causa della guerra, ho perso le gambe, ma non il mio sogno. Sono nato il 2 ottobre 2008 a Gaza, dove vivevo nel quartiere di Beit Lahia, insieme alla famiglia composta da mio padre, mia madre, mio fratello gemello Mohammad, mio fratello Qusay e mia sorella Alaa.
Abitavamo in una grande casa piena d’amore, stabilità e sogni. Mia madre si preoccupava sempre molto per noi. All’età di sette anni io e mio fratello gemello Mohammad – che per me era un’anima gemella - ci siamo iscritti a un centro di ginnastica vicino casa. Fu una sua idea. Amavamo tantissimo la ginnastica e anche il calcio. Sognavamo, fin da piccoli, di rappresentare la Palestina in questi sport, di studiare all’università qualcosa di legato allo sport e di diventare ginnasti professionisti o allenatori. Ci siamo allenati tanto, abbiamo imparato molto, fino a diventare famosi nel nostro centro sportivo. Indossavamo sempre le stesse divise e partecipavamo a tante manifestazioni sportive a Gaza, nel centro e nel sud. Nessuno riusciva mai a distinguerci, perché eravamo identici e facevamo tutti i movimenti insieme. Io e mio fratello Mohammad studiavamo insieme, giocavamo insieme, uscivamo insieme, dormivamo nella stessa stanza. Poi è arrivata la guerra, che ha portato via Mohammad e metà del mio corpo. Ci ha rubato i sogni, distrutto la casa e falcidiato la nostra infanzia. Siamo stati costretti a lasciare la nostra casa sotto i bombardamenti, sfollando dal nord al sud di Gaza, senza poter portare nulla con noi, nemmeno i documenti. Camminavamo a piedi, con il terrore nel cuore. Mia madre ci faceva spostare continuamente, da un posto all’altro, temendo che ci accadesse qualcosa. Siamo stati sfollati otto volte e ogni volta la situazione peggiorava.
Vivevamo in tende minuscole, senza acqua, senza cibo. Ci dicevano di andare in “zone sicure”, ma non c’era nessun posto sicuro e ogni volta uscivamo vivi per miracolo.
All’inizio della guerra siamo fuggiti nel campo profughi di Nuseirat, nel sud, sotto pesanti bombardamenti. Montavamo le tende per strada, senza acqua né coperte, senza nessuna possibilità di vivere dignitosamente. Dopo ottanta giorni a Nuseirat, è arrivato un ordine di evacuazione verso il campo di Al-Bureij e alcune zone vicine, perché la nostra area era diventata pericolosa. Mia madre fu costretta a spostarci, anche se non avevamo soldi né per un’auto, né per portare con noi la tenda. Ogni volta che fuggivamo era una sofferenza immensa, perché non ci lasciavano neppure il tempo di prendere le nostre povere cose: i missili arrivavano prima.
Siamo scappati verso Rafah, lungo la strada di Al-Rashid, sotto il fuoco dei missili. Saltavamo sopra i corpi per terra, abbiamo visto cani e gatti divorare i cadaveri. Non potevamo fare nulla.
Abbiamo visto i carri armati catturare uomini e donne, lasciando i bambini soli. È un’immagine che non dimenticherò mai. A Rafah, nel sud di Gaza, abbiamo vissuto quattro mesi. Non conoscevamo più il gusto della vita né della nostra infanzia. Io e mio fratello andavamo a prendere l’acqua da lontano e cercavamo cibo nelle mense popolari. La vita era durissima, i prezzi altissimi, e vivevamo in zone pericolose.
Poi arrivò l’ordine di evacuazione anche da Rafah e ci spostammo a Khan Younis, un’area desertica, fatta solo di dune di sabbia, inadatta alla vita, senza acqua né infrastrutture.
Successivamente tornammo a Nuseirat e restammo lì altri tre mesi. Uno dei miei zii ci chiamò: stava cercando di uscire dal nord verso il sud con sua moglie e sua figlia, ma fu arrestato dai soldati israeliani.
Quando ci fu la tregua la gioia di essere vivi ci pervase e tornammo nelle nostre zone, ma fu uno shock vedere che non era rimasta una sola casa in piedi. Tutta Beit Lahia era diventata una città di fantasmi: macerie, distruzione, resti umani sotto le rovine.
Beit Lahia, una città grande e importante affacciata sul Mediterraneo, famosa per i suoi campi di fragole, era ormai ridotta in polvere. La nostra casa era completamente distrutta, ma non perdemmo la speranza. Pulimmo il giardino e montammo una tenda. Lì passammo un mese, sognando con mio fratello di tornare al centro sportivo e di riprendere gli studi. Anche durante la guerra partecipavamo a piccole feste per portare gioia ai bambini. E la guerra riprese, con le bombe che ci costrinsero di nuovo a fuggire. Il 22 marzo 2025, ricevemmo un ordine di evacuazione. Uscimmo io, la mia famiglia, mio zio e sua figlia di sei anni, portando con noi poche cose. Improvvisamente un colpo di carro armato ci colpì in pieno.
Mia madre era davanti a noi, ci faceva segno di sbrigarci. Dietro c’erano la moglie di mio zio e i suoi figli. La granata esplose proprio accanto a noi. Mi ritrovai senza gambe, amputate sopra le ginocchia, e con quattro dita della mano sinistra tranciate. Vidi mio fratello Mohammad tagliato in due davanti ai miei occhi, in fin di vita. Mio zio era a pezzi, con la testa staccata e le viscere fuori.
Sua figlia, ferita alla testa, morì subito insieme a lui.
Quelle furono le nostre ultime parole insieme. Dicevamo scherzando a mio zio: “Immagina, zio, se ci colpisse un missile — se morissimo, ci porteresti all’ospedale perché mamma possa salutarci.”
E lui rispondeva: “Se invece fossi io a morire, voi mi aiutereste, vero?” Sua figlia Hiba, tenuta per mano da sua madre, disse: “Ho paura, mamma... voglio tornare... papà, tienimi la mano.”
Queste furono le sue ultime parole.
Alcuni amici vennero ad aiutarci. Ci caricarono su un tuk-tuk: me, mio fratello Mohammad e la figlia di mio zio. Io recitavo versetti del Corano, mentre Mohammad mormorava la shahada a bassa voce. Lasciarono il corpo di mio zio, ormai fatto a pezzi. Ci portarono d’urgenza all’ospedale indonesiano. Vidi mia madre urlare disperata. Non potevo parlare. In ospedale mi portarono subito in chirurgia, mi tolsero i vestiti — ero cosciente — e prepararono l’amputazione.
Leggevo ad alta voce il Corano finché svenni. Mi svegliai due giorni dopo, in terapia intensiva.
Avevo perso 10 unità di sangue. Dopo una settimana mi trasferirono in ortopedia.
Lì vidi mia madre, mio padre e i miei fratelli — ma senza Mohammad.
Rimasi in ospedale 15 giorni. Non mi dissero subito che mio fratello era morto. Quando chiedevo, mia madre mi rispondeva che era in gravi condizioni, trasferito all’ospedale Al-Shifa. Le chiedevo ogni giorno perché non andassero a trovarlo. Lei mi diceva: “Non è ancora permesso, deve svegliarsi dal coma.” Ogni giorno trovava una nuova scusa. Finché, una settimana dopo l’Eid, riunì i miei amici, il mio insegnante e i medici dell’ospedale, e mi dissero la verità: Mohammad era morto. Non riuscii a controllarmi. Gridai, piansi. Il dolore della sua perdita era molto più forte del dolore del mio corpo. Non potevo immaginare di continuare la mia vita, i miei sogni, senza di lui.
Ho perso metà del mio cuore. Quel 22 marzo 2025 ne sono andati Mohammad, mio zio, sua figlia, e metà del mio corpo.
Mi hanno lasciato dentro un dolore che non guarirà mai. Rimasi in ospedale due mesi per un intervento di innesto alla gamba destra. Avevo ancora una grossa scheggia vicino alla colonna vertebrale, che non è ancora guarita. La mia mano destra contiene una placca di metallo.
Poi, una notte terribile, le bombe esplosero accanto all’ospedale indonesiano.
Mia madre decise di portarmi via. Quando l’ospedale cominciò a evacuare i casi gravi, i carri armati ci circondarono. Riuscimmo a fuggire per miracolo. Molti furono uccisi dentro l’ospedale, altri uscirono camminando con la testa ferita, appena operati. Non dimenticherò mai quel dolore.
Avevo forti scosse ai nervi, dolori insopportabili, mancavano i farmaci, la fame era terribile.
Persi 20 chili e diventai debolissimo.
Poi ci spostammo in una tenda al centro di Gaza per un mese, finché l’Organizzazione Mondiale della Sanità inserì il mio nome nel programma di evacuazione. L’Italia decise di accogliermi per le cure, e sono stato trasferito all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Lì ho sentito rinascere la speranza: potrò avere delle protesi, camminare, vivere in un luogo sicuro, con la mia famiglia, e continuare il sogno mio e di Mohammad — studiare, laurearmi, aprire una palestra di ginnastica e giocare a calcio con i miei amici.
Ma nello stesso momento ho provato dolore e tristezza: ho lasciato la mia terra, il mio paese, e la tomba di mio fratello, che non ho potuto salutare. Accetto tutto come volontà di Dio, e sono certo che Mohammad è in un luogo sicuro, nel Paradiso insieme ai martiri. Prometto di continuare il nostro sogno, fratello mio. Non ti dimenticherò mai, né dimenticherò i momenti vissuti insieme.
Siamo stati accolti in Italia con amore e umanità. L’ospedale si prende cura di me e mi aiuta a guarire e a mettere le protesi. La speranza c’è, il morale è alto e la volontà è forte. Chiedo a tutte le associazioni, alle autorità e alle organizzazioni per i diritti dei bambini di aiutarmi a completare le cure, a riunirmi ai miei fratelli, ad avere una casa dove vivere. Chiedo i miei diritti: l’istruzione e un rifugio sicuro. Con la volontà di Dio, tornerò a camminare e realizzerò il sogno che io e Mohammad abbiamo sempre avuto: diventare un grande ginnasta e un grande allenatore.